Dal Cairo a Tunisi a Bengasi, piazze ancora in rivolta: ieri contro i tiranni, oggi contro chi li ha rimpiazzati!
La chiamavano primavera,ma quest’anno non arriverà. La stagione delle illusioni se n’è andata,ha lasciato posto allo sconforto di una rivoluzione mai germogliata....
Lo dicono a Sidi Bouzit dove la fiammata e il sacrificio del venditore ambulante Mohammed Bouazizi accese la rivolta tunisina. Lo ripetono le folle egiziane di piazza Tahrir. Lo gridano qui a Maidan Al Shajara, la Piazza dell’Albero nel cuore di Bengasi dove i lavoratori neri in tuta e caschetto giallo fedeli a Gheddafi randellarono i dimostranti dando vita alla leggenda dei mercenari al soldo del raìs.
Dieci mesi dopo la piazza è di nuovo piena con i sacchi a pelo srotolati e le tende coperte di murales. Ci sono gli invalidi di guerra con i moncherini fasciati. Ci sono i reduci in mimetica e scarponi, gli intellettuali verbosi, gli arrabbiati cronici.
Tutti di nuovo in piazza. Tutti di nuovo a gridare slogan al cielo. Tutti pronti a inveire contro i nuovi «raìs». Ibrahim Musmari ha 25 anni compiuti da poco. Le due gambe dilaniate da un razzo esploso davanti alla sua jeep sono rimaste su una duna di Brega. Fino a una settimana prima era solo un fabbro. Raccoglieva ferraglia, la plasmava tra incudine e martello e ci ricavava quel che bastava per vivere. Poi ha imbracciato il kalashinikov, s’è sentito un eroe. «Quando mi svegliai all’ospedale e scoprii di essere vivo mi arrabbiai. Avrei preferito essere già in paradiso. Gli amici mi dissero “sii felice, ora sei un eroe hai dato metà di te per la rivoluzione”.Mi mandarono a curarmi in Qatar e poi in Grecia. Non avevo più le gambe ma tutti mi aiutavano.
Poi hanno ucciso Gheddafi e io mi sono ritrovato qui a Bengasi, senza un soldo, senza un sussidio, senza un grazie. Non sono più né martire, né eroe. Sono solo un rottame. Sono come quei pezzi di ferro con cui mi guadagnavo da vivere. Mi hanno usato e venduto ».
Dietro alla carrozzella dell’invalido si fan largo le urla di Mararfel Sway. Ha 50 anni, dirige un sindacato e nonostante cammini ancora sulle proprie gambe sembra molto più infuriato del povero Ibrahim. «Perché grido? Perché urlo? Leggiti quei 18 punti - sbraita puntando il dito contro il manifesto appeso a un palazzo - vogliamo che il Cnt (Consiglio Nazionale di Transizione) ci dica come usa i soldi del petrolio, vogliamo sapere quando ci sarà un’elezione e come gestiranno il nostro futuro. A dieci mesi dalla rivoluzione non conosciamo neppure i nomi di tutti i componenti del Cnt, l’identità di molti continua ad esser segreta... e sai perché? Perché sono gli stessi che controllavano soldi e istituzioni con Gheddafi».
Anche tra i giovani ritornati nella Piazza dell’Albero il refrain più di moda è trasparenza.
«Il potere del Cnt è oscuro come una finestra infangata- s’infervora il 23enne Mohammad Albajenie. A febbraio bivaccava nelle tende dei Giovani per il Cambiamento piantate davanti al tribunale,sognava l’eldorado petrolifero di una Libia trasformata in nuova Dubai. Ora per pagarsi l’università lavora in un supermercato e la sera corre in piazza per urlare la propria delusione: «Ci hanno promesso la democrazia perché non si dimettono? Non sono stati né scelti né eletti, sono lì solo perché erano gli unici a disposizione, devono andarsene a casa, vogliamo un Cnt eletto dal popolo».
La rabbia di Maidan Al Shajara a Bengasi è la stessa respirata due settimane fa a Sidi Bouzit in Tunisia. Nell’epicentro di tutte le rivolte arabe del 2011 Moez e gli altri colleghi del carrettiere martire Mohammed Bouazizi, ripetono in coro un solo concetto. «Lui è morto e ci ha regalato la libertà di protestare, ma quelli arrivati dopo Ben Alì non ci hanno ancora dato né lavoro né dignità. Qui la rivoluzione è solo uno slogan, tutti lo ripetono ma quando fanno i conti con il portafoglio scoprono di esser poveri come prima».
Un’identica frustrazione dilaga tra i tavolini del quartiere Bursa, la retrovia di piazza Tahrir dove i rivoluzionari della prima ora, i ragazzi e le ragazze ammaliati dal sogno di un Egitto democratico, laico e liberale fanno i conti con il tradimenti degli islamici e i fucili dei militari.
Un’identica frustrazione dilaga tra i tavolini del quartiere Bursa, la retrovia di piazza Tahrir dove i rivoluzionari della prima ora, i ragazzi e le ragazze ammaliati dal sogno di un Egitto democratico, laico e liberale fanno i conti con il tradimenti degli islamici e i fucili dei militari.
Alaa Alja, 22 anni, ti mostra i quindici punti di sutura nascosti sotto la fascia azzurra annodata sul capo. «Li vedi questi? I militari ci hanno tirato dei mattoni dall’alto di un palazzo, intorno a me i miei amici sono morti colpiti dai proiettili. In piazza quella sera c’eravamo solo noi. I Fratelli Musulmani, i salafiti, gli islamici ormai pensano solo alle elezioni e al potere. Ci hanno usati per cacciare Mubarak e ora lasciano che i militari ci facciano fuori. La rivoluzione un anno fa era un sogno, ora è solo un ricordo dal gusto amaro».
Fonte: IlGiornale
Nessun commento:
Posta un commento